di Massimo Maggiari

Per lo sciamano il fine ultimo non è essere buono, ma essere autenticamente se stesso. E quello è più che sufficiente…Gli sciamani non pregano alla fonte di quello in cui credono, loro ci vanno direttamente… Lo sciamanesimo non è New Age, bensì Età della Pietra.

 

(“What shamanism is not”, David Kowalewski)

Quando si parla di sciamanesimo ai giorni nostri è bene fare delle precisazioni importanti. La ricerca di esotismo ha oramai valicato tutte le frontiere, anche quelle del sacro. Che ovviamente ha molto da offrire con danze vorticose, riti, catarsi, e varie esperienze a base di sostanze psicotropiche. Anche questa è una richiesta del mercato tipica dei nostri tempi in cui pensiamo di poter comprare tutto. Soprattutto emozioni. Ma quello che pretendiamo di realizzare con esperienze ad alto tasso adrenalinico è spesso solo fuoco fatuo. Un week-end fuori dalla norma. Ciò che alcuni definiscono come turismo dello spirito. Tale intrattenimento può però rivelarsi un’utile deviazione. Rivelando il desiderio di voler crescere dentro. Del resto, per anni cresciamo col corpo guardandoci fuori. Laddove le emozioni che accompagnano l’esistenza prima o poi ci portano ad affrontare anche il mondo interiore. La sua invisibilità.

Lo sciamanesimo ha una storia antica. Anzi antichissima. Migliaia e migliaia di anni in cui gli umani erano pochi, nomadicamente mobili e sparsi. Dediti alla caccia e alla sopravvivenza in un ambiente non sempre generoso. All’interno di questo termine di origine siberiana (da samaan, “colui che sa”) convergono un crogiuolo di ruoli e prestazioni. L’omeopata, il prete, il bardo, lo psicoterapeuta, il carismatico leader, la guida naturalistica, il profeta visionario, l’estroso showman, il guaritore o il persecutore. Una lunga lista che rivela un processo di differenziazione realizzato attraverso diverse epoche. In realtà, ogni regione del mondo ha un suo passato animista e magico che designa la figura dello sciamano (o tecnico del sacro) con un titolo specifico. Nel mondo artico il termine più usato è quello di angakoq o angakkuq. Angákut al plurale. Un angakoq ha una visione animista del mondo dove tutto è vivo e interconnesso. Questo è il concetto di base come prerequisito essenziale. D’altronde, il moderno linguaggio della fisica descrive in modo analogo una realtà dove tutto possiede l’energia di atomi e neutroni. Ma non basta la suddetta visione del cosmo a fare uno sciamano. Prima dell’esistenza di medici e di ospedali, la chiamata a essere un medicine-man, all’interno di ogni clan, era un invito all’esercizio della compassione. A curare i propri simili con erbe, acque sorgive, impacchi e filtri, preghiere, o parole intrise di speranza. La morte restava in ogni caso sempre un grande spavento che conveniva alleviare con l’amore. E i suoi simboli.

Ma il vero sciamano è qualcos’altro. Ovvero l’individuo che andando in trance prende contatto col mondo degli Spiriti, degli antenati o degli dei/dee. Non in modo passivo, tramite sostanze o conduit medianico. Ma al contrario consapevole. Magistralmente controllato. Con l’intenzione ben fissa alla posta. Per guarire malattie, recuperare l’anima, parlamentare con animali, forze cosmiche e divinità. Aiutando chi ha smarrito la via, oppure accompagnando i defunti alla luce. La sfera d’azione dello sciamano in ogni caso non si esaurisce qui. L’angakoq del mondo artico (come pure lo sciamano siberiano) fa un passo ancora più in là. Lasciando il corpo in stato catatonico e viaggiando nell’anima libera attraverso i reami dello SpiritWorld. Un volo magico che transumana in una dimensione avvolta dal mistero più fitto.  Esistono resoconti di viaggi sciamanici che sono vere e proprie Divine Commedie. Dove il pellegrino inseguendo un animale sconfina oltre il terrestre in un paesaggio giammai esplorato. Celeste o infero. Il fine di questo viaggio? Acquisire potere (spirituale) e conoscenza. Visione interiore. Da mettere poi al servizio della propria comunità. O se stessi.

Nelle società tradizionale il ruolo di sciamano viene percepito come un impegno grave da cui molti cercano di svincolarsi. Anche a rischio di malattie e sfortunati eventi sincronici. Gli Spiriti non abbandonano facilmente la preda quando l’hanno addocchiata. Nell’ Occidente di oggi è l’opposto, tendiamo spesso a mitizzare la figura dello sciamano. Soprattutto nei film. Tuttavia gli inganni e i malintesi sono molteplici. Si tenga a mente che lo sciamanesimo è come un’arte marziale che richiede dedizione e pratica quotidiana. Non è facile meritare una cintura di qualsiasi colore. Camminare in un ambiente naturale, meditare in un bosco, o abbracciare gli alberi sono esercizi salutari ma non sufficienti alla qualifica di sciamano.  Si aggiunga pure che il rapporto col mondo immaginale è impegnativo e non sempre riscatta da passioni basse come l’invidia e la brama di potere. In questi casi, gli stessi Spiriti tendono a risolvere il misfatto abbandonando l’adepto al suo destino. Privandolo del suo potere personale.

Dagli anni 80’ un antropologo americano, Michael Harner, ha inventato un approccio moderno all’arte sciamanica definendolo Core Shamanism. Ci si concentra sull’apprendimento delle tecniche al di fuori dei contesti culturali. Facendo uso del tamburo per entrare in una trance leggera che permette di viaggiare nello SpiritWorld. Sia nella sfera ctonica che in quella celeste. Alla ricerca di alleati e animali di potere. I risultati sono interessanti. Dai corsi insegnati escono fuori dei praticanti all’arte, ma non degli sciamani. A meno che siano gli Spiriti ad assegnare tale ruolo e potere. Breeze Wood, l’editor di Sacred Hoop usa un’interessante metafora per chiarire questo punto. “Paragono sempre lo SpiritWorld all’oceano. Tutti possono avvicinarsi alle sue acque. Alcuni passeggiano sulla battigia, bagnando appena i piedi. Altri si cimentano con le onde vicino a riva. Ma pochissimi s’avventurano al largo. O tantomeno nelle profondità. Quelle sono mete solo per gli iniziati. Fatta questa premessa, è utile osservare che un po’ di saggezza sciamanica, ovvero consapevolezza delle energie proprie, altrui e dell’ambiente, e come interagiscono, può solo aiutare a vivere meglio.”

Nel mondo artico delle popolazioni inuit lo sciamanesimo è ufficialmente scomparso. O quasi. Solo in Siberia resiste ancora.  Cosa significa questo? Che tra quelle popolazioni della Russia transuralica vive ancora un lembo di arcaicità in piena partnership con la comunità, gli sciamani e le loro credenze. Lassù troviamo oggi i kam che viaggiano più lontano. Nell’Universo. O così si presuppone da resoconti. In Alaska, nel Canada artico e in Groenlandia i missionari cristiani hanno gradualmente rimosso la pratica sciamanica dal tessuto sociale. Innanzitutto mettendo al bando il tamburo e le sue cerimonie. Chiaramente ci sono eccezioni. Nell’artico canadese di lingua francese, un certo Abbé Pierre, un francescano, fu assai tollerante delle pratiche tradizionali purché non avessero finalità malvagie.

Durante i miei viaggi nel Grande Nord ho trovato sempre difficoltà a parlare di sciamanesimo. In parte, ne ho capito i vari perché. E sono disposto ad aggiungerne altri, a chi li voglia suggerire. La colonizzazione che oramai dura da almeno due secoli ha umiliato le popolazioni indigene fino alle ossa. Riuscendo a convincerli che lo sciamano è marchio di arretratezza e d’inferiorità culturale. Purtroppo l’offesa che un anziano inuit teme è la derisione. Perché lo depotenzia del suo carisma. Del suo ruolo di custode della memoria. Per questa ragione, di certe cose non può o non vuole parlare. La colonizzazione ha pure introdotto il materialismo e una cultura televisiva che non offre radici, senso di appartenenza, ma solo glamour e consumismo. I giovani inuit che non trovano rifugio e nutrimento nella loro cultura mostrano tutti quei sintomi che altri giovani marginalizzati esperimentano altrove. Dipendenza da alcool e droghe, solitudine e disperazione.

La maggior parte delle persone che ho incontrato hanno minimizzato o negato un attuale presenza di pratiche sciamaniche. Eccetto un gruppo di individui che fanno parte di una categoria emergente che cade sotto l’egidia di neo-sciamanesimo. Tra questi, ci sono molti artisti che hanno trovato nella mitologia inuit un’ispirazione alla propria arte d’intaglio o alla pittura murale.  Il neo-sciamano Anggangaq Angakkorsuaq con la creazione di IceWisdom.org è invece uno dei pochi che apertamente promuove la cultura sciamanica e il suo sapere antico collocandosi in un’ottica ecologica e di divulgazione trans-culturale che trova riscontri positivi e seguaci specialmente nel mondo germanico. In Alaska c’imbattiamo invece nella figura di Rita Pitka Blumenstein, una elder  e una guaritrice tradizionale degli Yup’ik e membro di un’associazione chiamata Thirteen Indigenous Grandmothers che promuove i diritti delle popolazioni indigene. È una figura carismatica che parla con gentilezza dell’importanza di essere autenticamente se stessi. Secondo Rita, accettarsi porta guarigione. L’atto di conoscersi, invece, un prezioso potenziale al mondo.  A lei s’affianca Marie Arnaq Meade, esperta di danze native. Un’altra figura importante nel progetto di conservazione delle tradizioni Yup’ik. Esiste dunque un risveglio e un ritorno delle antiche usanze nel nostro presente? Senz’altro sì, perché ci avvicinano alla Natura, e a una comprensione profonda della medesima. In secondo luogo, perché abbiamo capito che può giovare alla nostra salute. Salvandoci dallo stress e dalla sua invasiva presenza. Durante ogni mia visita alla Fondazione di studi sciamanici di Harner a Verona trovo il salone gremito di studenti. A tutti i livelli. Molti sono operatori sanitari. Infermiere, massaggiatori, dottori, psicoterapeuti con certificazione. Sono lì per imparare. Nuove tecniche, nuovi modi. Perché l’arcaico può funzionare ancora, e la sofferenza nelle sale ospedaliere non manca. L’ottimo coach Nello Ceccon, riesce a guidare ogni gruppo lungo un percorso complesso che svela l’importanza non solo del pharmakon ma anche dell’atteggiamento di chi cura.  Della sua intenzione.  Tra le tecniche inuit insegnate durante i workshop c’è quella dello sfregamento della pietra su di una superficie dura. Un gesto ripetuto per ore. Al silenzio. In un bosco verdeggiante e nebbioso. Quel semplice e monotono gesto apre il cuore all’intuizione. Infine alla presenza dell’anima. Una volta compiuto quel salto possiamo sì aprirci all’altro e ai suoi bisogni. Muovendo col fiuto. La compassione dentro, assistita dall’animale di potere. Come migliaia di anni fa. 

Addendum: da non dimenticare le interessanti pubblicazioni dedicate allo sciamanesimo artico dell’Arctic College di Iqaluit, capitale di Nunavut. In esse sono trascritte decine di conversazioni avute con elders di diverse comunità che conservavano ancora ricordi e storie da condividere su questo tema.

 

Estratto da:

Al canto delle balene. Storie di esploratori, cacciatori, e sciamani inuit.

Giunti editori, Firenze, marzo 2018.

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